Allargare i confini dei nostri ruoli lavorativi
Appunti di riflessione su chi siamo quando lavoriamo
Il lavoro non definisce il tuo valore.
Il lavoro è ciò che fai - e non deve per forza riflettere chi sei.
Rendere il tuo lavoro parte della tua identità è un'opzione, non un obbligo.
Il tuo impatto sul mondo non dipende da come ti guadagni da vivere.
Dipende da come vivi i tuoi valori.
Adam Grant1
Questo è quello che ha detto. Questo è quello che ho sentito:
1. Qualunque sia il lavoro, fallo bene, non per il capo ma per te stesso.
2. Tu fai il lavoro; non il contrario.
3. La tua vita reale è con noi, la tua famiglia.
4. Tu non sei il lavoro che fai; tu sei la persona che sei.Da allora ho lavorato per tutti i tipi di persone, geni e idioti, arguti e ottusi, generosi e meschini. Ho svolto molti tipi di lavoro, ma da quella conversazione con mio padre non ho mai considerato il livello di lavoro come la mia misura.2
Queste parole, tratte da “Il lavoro che fai, la persona che sei”, un racconto di Toni Morrison per The New Yorker (che vi invito a leggere) sono arrivate in una fase di cambiamenti che riguardano il mio lavoro.
E spesso le riflessioni nascono da una serie di input, che per qualche strana coincidenza, arrivano nello stesso momento.
Come è accaduto quando, dopo qualche giorno dopo la lettura del racconto, mi sono imbattuta in un post Linkedin ,in cui
, riportando alcuni dei dati dell’osservatorio sul benessere psicologico delle persone che lavorano3 , condotto da Serenis con l’università di Padova, scriveva:1 persona su 2 dichiara un disagio psicologico... non è stanchezza, non è demotivazione, non è poca voglia di fare.
È che lavoriamo all'interno di un sistema che genera malessere psicologico.Quando a generare malessere è la cultura, cultura della performance, della competizione, dell’immagine, dei formalismi, dei silos (funzionali, generazionali, gerarchici), della discriminazione, del gender gap... quando il malessere è frutto di una cultura non bastano 4 iniziative – realizzabili solo se rientrano nel budget – per rendere il benessere un fattore costitutivo.
parla di “burnout cultures”, culture tossiche, che producono l’esaurimento delle energie di chi vi lavora, nelle quali le persone vengono giudicate in base ai sacrifici che fanno. Nelle culture sane, le persone vengono giudicate dagli impegni che mantengono. Gli interessi al di fuori del lavoro sono visti come passioni da celebrare.
Le nostre aspirazioni, interessi e contributi alla società vanno ben oltre il semplice compito che svolgiamo per ottenere un salario. Ridurre l’essenza di un individuo alla sua professione è un'ingiustizia verso la ricchezza della sua umanità.
Una considerazione che ha di fatto emergere una riflessione che covavo da tempo e che negli ultimi tempi, forse accelerata anche da fattori che riguardano il mio vissuto lavorativo di questo periodo, su quanto il lavoro si ripercuota inevitabilmente sul nostro essere persone, prima di tutto.
L’identità di una persona non può essere ridotta al suo lavoro.
Non partire dal presupposto che noi siamo prima di tutto esseri umani, complessi, combinazione di esperienze, passioni, valori, e relazioni, ma solo e unicamente “un ruolo” che incarniamo, significa limitare la nostra essenza.
Il ruolo è un confine che mettiamo a noi stessi
Le etichette professionali possono limitare la nostra percezione degli altri e di noi stessi, descrivendo ciò che facciamo, non chi siamo. Dietro ogni professione c’è una storia unica, una serie di esperienze e una gamma di interessi che non possono essere racchiusi in una sola parola.
Il professor William A. Kahn, tra i fondatori del concetto di engagement delle persone sul lavoro, scrive:
Nei ruoli che attuano, le persone possono usare diversi livelli dei propri sé (self): fisicamente, cognitivamente ed emotivamente, anche se mantengono integri i confini tra chi sono e i ruoli che occupano. Presumibilmente, più le persone attingono al loro sé per svolgere i loro ruoli all’interno di questi confini, più le loro performance sono coinvolgenti e più sono soddisfatte della vestibilità del ruolo che indossano4
Ingabbiarsi in dei ruoli non permette a noi stessi di instaurare dialoghi veri, ma solo basati sulla forza del potere che hai, in relazione al tuo interlocutore.
Questo nel mio vissuto lavorativo mi ha portato a essere spesso un passo indietro, misurando le parole, e anche le idee, per tutta una serie di fattori (e c’entra inevitabilmente anche il fatto di essere donna che si interfaccia con uomini posti ai luoghi di comando), minando in qualche modo anche la mia autostima, attraverso la riconosciuta discrepanza tra il mio potenziale come individuo creativo e la sua realizzazione. Ma ha minato, per forza di cosa, anche ambiente e benessere lavorativo.
Questa mia presa di coscienza mi porta a capire che incentrare il rapporto lavorativo sulle relazioni umane, senza relegarle ai semplici ruoli - allargando la visione anche su me stessa e alla persona che sono, alla mie passioni extra lavorative, attingendo al bacino dei miei interessi - potrebbe migliorare anche il mio lavoro, caricandolo anche di nuova linfa.
“Per usare ancora la terminologia di Kahn, possiamo impiegarci completamente in quel che facciamo ed esprimere tutti noi stessi in ogni situazione; e oggi, nel disegnare il lavoro del futuro, questa appare come una responsabilità ancora prima che come una possibilità.”5
Puoi scaricare qui la ricerca: https://www.serenis.it/a/report-unipd?utm_source=linkedin&utm_medium=social&utm_campaign=ricerca+unipd&utm_content=post
Grazie Satya per questa bellissima puntata, mi ha toccato molto. È liberatorio leggere che si può fare anche altro senza smettere di essere chi si è.
Che la persona si riprenda i propri legittimi spazi si sta già notando proprio sul lavoro. Prima un avvocato faceva l'avvocato. Adesso fa l'avvocato in ufficio poi a casa magari dipinge. La stessa parola carriera una volta era avanzare di grado sul lavoro, ma adesso? Rimane ancora in qualche modo legato al lavoro la presentazione di sé. Chi sono? Prima il nome, poi l'attività 🤔