Aggrapparsi al presente
Ci viene chiesto di amare o odiare questo e quel paese o quel popolo. Ma alcuni di noi sentono troppo forte la nostra comune umanità per fare una scelta del genere.
Ci viene chiesto di amare o odiare questo e quel paese o quel popolo. Ma alcuni di noi sentono troppo forte la nostra comune umanità per fare una scelta del genere. 1
Albert Camus
Ho pensato tanto agli argomenti da trattare in questa newsletter, ho anche stilato una lista, ma c’era qualcosa che mi bloccava: il mondo fuori.
Tutte le orribili notizie che arrivano dai media stridevano così tanto con le frasi che scrivevo. E non potevo non fare i conti con tutto quello che sta accadendo in Ucraina e a Gaza. Soprattutto non potevo non fare i conti con quello che sento.
Mi sento sopraffatta, da Paura e Impotenza.
È così, non me ne vergogno. E lo scrivo, per vederlo nero su bianco. Per prenderne coscienza io stessa. Perché se lo dico, forse si attenua un po’.
Perché è grande questo sentimento, non ha limiti, mi fa perdere l'equilibrio, mi inghiotte. È nero. È buio.
Io ci provo ad aggrapparmi al concreto, al presente, alla vita di tutti i giorni, a mio figlio, ai suoi sorrisi, ai programmi da fare, alle cose da organizzare.
Poi, basta che mi fermi un attimo per capire che sto camminando su un margine della realtà. Quello fortunato. Quello che può restare a guardare, giudicare, prendere posizione. Quello che ha ancora tempo. Di respirare, di sperare.
Ciò che faccio con i miei giorni, il modo in cui li dettaglio in ritmi programmati, è un’altra contrazione dello stesso ridicolo, impotente impulso umano: possedere il tempo, trasformare in proprietà privata quello che potrebbe essere l’unico vero bene pubblico.
“Quando ti rendi conto di essere mortale, realizzi anche la straordinarietà del futuro. Ti innamori di un tempo che non percepirai mai”2, ha scritto la poetessa e pittrice libanese Etel Adnan.
Se mi aggrappo al mio tempo è perché la realtà è che non lo so come si affrontano Paura e Impotenza.
L’unico contatto con la guerra che ho avuto, è con i racconti che i miei nonni facevano della Seconda Guerra Mondiale.
Tra mia nonna materna, esule fiumana, giovane vedova con figlio piccolo al seguito, approdata ai campi profughi in Italia; mio nonno che la guerra l’ha combattuta armi in mano, prigioniero in India e gli altri nonni paterni che, più piccoli, la guerra l’hanno vissuta nella quotidianità, nella lotta continua alla fame e alla sopravvivenza.
Ieri mi sembravano fiabe, lontane dalla mia realtà di ragazzina.
Oggi mi vengono in mente perché cerco conforto nelle parole. In quelle degli altri. Per trovare risposte e spiegazioni, ma soprattutto termini esatti che possano descrivere qualcosa che sento più grande di me, uno spaesamento dell’anima. Punti fermi, un appoggio per trovare stabilità in questi tempi sconcertanti.
Non tutti amavano parlarne, ma c’era qualcosa che li accomunava: non avevano mai perso la speranza.
Le basi della speranza sono nell'ombra, nelle persone che stanno inventando il mondo mentre nessuno guarda, che loro stesse non sanno ancora se avranno qualche effetto
ha scritto Rebecca Solnit, che sulla complessità di sostenere la speranza nei nostri tempi disperati ha scritto un intero libro.3
Le loro storie mi hanno insegnato che la speranza può essere una forma di resistenza al male, in tutte le sue accezioni.
In tempi di violenza inespressa, credo che il compito dei nostri atti più piccoli - come quello di avere speranza - anche nelle più piccole circostanze, è creare un rapporto onorevole con il mondo. Solo così la speranza può diventare un atto rivoluzionario.
L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all'aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all'esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono.4
Questo è il motivo per cui la speranza può diventare un sentire comune, un’appartenenza, una connessione umana e quindi uno dei più grandi atti di coraggio e resistenza di fronte all’oppressione poiché i valori eterni della vita umana sono dichiarazioni di appartenenza.
Ogni volta che il mondo attraversa un inverno dello spirito umano, i racconti dei miei nonni mi hanno insegnato a riaccendere il focolare costante della speranza, di riabitare la mia natura più umana. E di non dimenticare - come scriveva Albert Camus - che “nel profondo dell’inverno, ho finalmente imparato che dentro di me c’era un’estate invincibile”.
Letture
Una lista per risvegliare la speranza e per trovare le parole che ci spiegano cosa sta accedendo:
L’ultimo dei
di Samantha Colombo che racconta quello che sta accadendo attraverso la musicaLa cortina di vetro. Vecchie paure e nuovi confini di Micol Flammini
Un profilo Instagram da seguire per ascoltare anche l’altra parte campana
Etel Adnan, Viaggio al monte Tamalpais, trad. di R. Marzano Multimedia Edizioni, 1993
Rebecca Solnit, Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo, Fandango Libri, 2005
Ernst Bloch, Il principio Speranza, in Eugenio Borgna, L'attesa e la speranza, Feltrinelli Editore, 2005